Introduzione

L'esigenza di norme statutarie, in una libera comunità medievale, può considerarsi il punto d'arrivo di una lunga, lenta, collettiva elaborazione di principi, in base ai quali, nell'ambito di una società in crescente sviluppo, i complessi rapporti sociali, civili, economici venivano affrontati e risolti sulla base del diritto romano, del diritto canonico, della consuetudine e, in maniera non certamente marginale, del buon senso.

Di solito, non si trattava di disposizioni rigide e intoccabili: essendo state esse, richieste per regolare la vita nei suoi molteplici aspetti, per forza di cose dovevano venir adattate e modificate via via che nuove circostanze lo richiedessero, sempre, però, dopo un serrato dibattito, con un voto finale.

Tale è stato certamente l'iter seguito nella composizione degli statuti della città di Orte, giunti a noi nell'ultima elaborazione approvata con il sigillo papale, di Gregorio XIII nel 1584, la cui prima formulazione, però, secondo la testimonianza dello storico ortano Lando Leoncini (Fabrica Ortana, vol. I - II, f. 425) risale all'inizio del sec. XIII. L'esame degli atti consiliari del sec. XV e le testimonianze precedenti lo confermano "ad abundantiam".

Diverso è, invece, il caso degli statuti "baronali" di Bassanello. La breve ma densa premessa che lo precede è, a riguardo, illuminante. Da essa sappiamo die in quel particolare momento storico (primo trentennio del sec. XVI) anche "gli uomini della terra di Bassanello ", sull'esempio di altre comunità, avevano richiesto di esser governati in conformità di norme scritte, chiare e precise, ispirate alle leggi comuni e alle antiche consuetudini.

Questa istanza, però, non nasceva dal rifiuto di una forma di vita, storicamente consolidata, che aveva contraddistinto la loro comunità rispetto alle altre e ne, aveva costituito l'identità. La volontà di "osservarle in perpetuo" e di rispettarle "intacte e inviolabili", oltre che da un profondo bisogno di giustizia ("amate la iustitia voi che regete la terra") nasceva anche dal proposito dì render "gloria a Dio", onore ai Santi protettori del cielo "et ai signorì della terra". A quel tempo, i protettori del cielo erano San Lanno, San Sebastiano, Sant'Antonio, e Sant'Angelo.

I signori della terra erano Laura Orsini e Nicola della Rovere. Di questi "signori della terra", il Leoncini, che aveva avuto rapporti di amicizia con il loro primogenito Giulio, ci ha lascialo particolareggiate notizie (ib. vol. If 150). Laura, figlia di Orsino Orsini e di Giulia Farnese, era nata a Roma, a Montegiordano, venerdì 30 novembre 1492. Nel 1505 venne maritata a Nicola della Rovere, nipote di Giulio II. Secondo le costumanze delle famiglie nobili del tempo, il matrimonio avvenne in due distinti momenti: "lo sposalizio " cioè la promessa solenne di matrimonio, fu stipulata dinanzi al notaio messer Claudio di Benimbene il 16 novembre 1505, quando Laura era una fanciulla di appena 13 anni, nella sala pontificia del Palazzo apostolico, alla presenza di otto cardinali "et di Sua Santità". Il rito nuziale propriamente detto venne celebrato il 16 giugno 1506 in casa del cardinale suo cognato, "et la consumazione del matrimonio fu fatta in casa del signor Paolo Incoronati, patrizio romano, nella regione della Regola in Roma".

Il 23 giugno 1512 ebbero il primo figlio cui in onore del papa fu imposto il nome di Giulio, e fu poi il loro successore nel feudo di Bassanello e Carbognano. Il 17 febbraio 1514 "tempore Leonis X" nacque a Bassanello la figlia Elena, battezzata il 26 dello stesso mese dal vescovo di Orte Francesco Franceschini.

Il poeta ortano Simon Feo, suo contemporaneo, ci tramanda in alcuni versi dell'elegia "Ad amicum" l'eco dell'ammirazione che la bellezza di Laura suscitava in tutte le comunità circostanti: "Hinc patrio vicina solo, Venus altera terris / oppida Laura regit, quam tut Ursa ferox / hoc Bassanellum primi dixre coloni" (v. 83 - 85) (Da questa parte, i castelli vicini alla mia patria li governa Laura che discende, novella Venere, per queste terre, dalla feroce Orsa: questo è Bassanello, come lo chiamano i coloni).

Gli statutari incaricali, per unanime consenso del popolo e dei "signori della terra", rivestiti, dunque, di autorità e di piena libertà, a stendere per iscritto e a riordinare le norme statutarie "come a loro sembrerà opportuno, per lo honesto vivere et pace della terra" furono Bernardino Funaro, Pellegrino de Besso, Giovanni di Ser Martino, Andito de Andrea de Chirico, Pieri de Agnilo de Matalena e Menico de Fiasco, persone, come si vede, di autentica estrazione popolare, certamente non appartenenti né al ceto dei letterali né a quello dei giuristi.

Essi si servivano di uno scrivano di non sicura padronanza linguistica che, a scanso di responsabilità cercò di attenersi il più possibile al loro modo di parlare. Non sembra, d'altra parte, che nella formulazione delle norme, i "sex viri legibus scribundis" abbiano avuto presenti modelli di altri statuti baronali in vigore nei paesi vicini, né tanto meno, statuti di liberi comuni, come quello di Orte, così diverse sono le situazioni esaminate e le norme giuridiche applicate.

La forma espressiva è piuttosto involuta, la sintassi incerta. Nello sforzo di dare al linguaggio ordinario un rivestimento dignitoso, essi cadono talvolta in forme curiose, che lo scrivano registra regolarmente, senza batter ciglio. Singolare, a riguardo, è la trasformazione della doppia nasale dell'uso dialettale nel gruppo "nd", anche nella terza persona plurale del futuro semplice. Gli statutari sapevano, ad esempio, che la forma corretta dell'avverbio di tempo "quanno ", da loro abitualmente usata, era "quando ", ma ritenevano che il fenomeno si estendesse a tutte le altre parole che terminavano con la "n" doppia, e non esitarono, perciò, a dettare"serando"per "seranno", "averando " per "averanno " "eleggerando " per "eleggeranno " e così via, e per analogia assimilarono a questo fenomeno in senso contrario anche il gruppo "ld" in doppia "ll", cosicché trasformarono il termine "soldi" in "solli".

La raccolta complessiva delle norme statutane si compone di 140 capitoli divisi in cinque libri. I capìtoli che formano il primo libro sono 32, ma devono essere, raggruppati in due parti distinte che nella mente degli statutari costituiscono il primo e il secondo libro, giacché i primi sei capitoli trattano delle cariche comunali, mentre i rimanenti 25 contengono le norme di procedura nelle cause civili. Il libro che segue viene infatti indicato come libro terzo e gli altri quarto e quinto.

I primi sei capitoli confermano, di fatto, una situazione preesistente, della quale però, e questa è la novità, si precisano per iscritto i diritti e i doveri di ciascuno dei funzionari che presiedevano allo svolgimento della vita comunitaria. Fino al momento in cui si riconobbe concordamente la necessità di emanare lo statuto, di assicurare, cioè, la certezza del diritto, la volontà del Principe, che se ne stava per lo più a Roma, era rappresentata sul posto da un suo vicario, che si comportava normalmente in modo dispotico, tanto da far rimpiangere la presenza sul posto del Principe stesso. Alla fine del sec. XV e agli inìzi del XVI i comportamenti rozzamente arbitrari e sbrigativi di questo sistema di governo cominciarono ad apparire sempre più in stridente contrasto con la nuova mentalità, suscitata dal diffondersi dello spirito umanistico che, seppur privilegio di pochi, fece emergere a tutti i livelli interessi e problemi che per forza di cose imponevano alla vita cittadina novità e mutamenti profondi. Non si trattava, si badi bene, di un fenomeno limitato a grandi città o a zone isolate della penisola.

Il fatto che anche "il signore e padrone della terra di Bassanello ", un centro allora di poco più di cinquecento abitanti, sia stato indotto a dare il proprio consapevole consenso ("de consenso et scientia") alla formulazione degli statuti, ed abbia acconsentito addirittura che il suo vicario, alla fine del mandato, venisse sottoposto a sindacato "della bona et mala iustitia" (1. I c. IV) induce a rimetter in discussione una verità, data finora per scontata e unanimamente accolta, se cioè il ritratto del Principe, delineato dal Machiavelli nel 1513 e divulgato postumo nel 1532, rispecchi veramente la realtà "effettuale" storica e sociale del tempo o se, piuttosto, non sia da ritenere che il segretario fiorentino, nel momento stesso in cui era costretto a prender atto di una situazione che cominciava a modificarsi, abbia cercato, in base alle sue personali convinzioni, di richiamare il principe ad essere "come sarebbe" dovuto.

Un fatto, comunque, ci sembra fuori discussione: che il ritratto del "Principe", qual'è quello a noi trasmesso dal Machiavelli, poteva pur applicarsi a rappresentare il signorotto di altre regioni d'Italia, non però i signorotti dello stato della chiesa, i quali pur con le loro prepotenze, un limite lo trovavano sempre nelle norme del diritto canonico. Per il "Principe" del Machiavelli non c'era che una sola volontà, la sua, assoluta (legibus soluta) e incontrollata, che di regola di trasformava in arbitrio.

Il popolo non era se non "vulgo ", aggregazione inerte di uomini senz 'anima e senza voce, oggetto e non soggetto di storia, il cui privilegio era solo quello di servire il signore e di eseguirne la volontà senza discutere, rimettendosi a ogni sua decisione, presa per motivi che lui solo conosceva, allo scopo di realizzare quello che a suo giudizio era utile allo stato, cioè, in definitiva, a se stesso. È chiaro che una visione di questo tipo non ammette statuti, a meno che non siano finzioni adatte solo a coprire con un manto di legalità orribili comportamenti.

Che nei sec. XIV e XV la situazione di molte signorie e principati italiani fosse conforme a quella delineata dal Machiavelli è fuor di dubbio, così come è certo che questa fosse pure la tendenza dei signorotti che operavano entro i limiti degli stati della chiesa, nel periodo in cui il papa era ad Avignone.

Questo stato di cose, ebbe, però, un brusco arresto quando, nel luglio 1353, arrivò in Italia il card. Egidio Albornoz, inviato da Innocenzo VI ufficialmente come vescovo di Sabina, ma in realtà come "vicarium in tempora-libus, reformatorem ac pacis et provinciarum conservatorem" del patrimonio di San Pietro in Tuscia, del ducato di Spoleto e della Marca Anconitana.

Posti i suoi quartieri d'inverno a Montefiascone, dopo aver nominato Nicola Roberteschi, vescovo di Orte, suo ausiliario in Sabina e suo commissario, con l'incarico specifico di sistemare i rapporti con i prefetti di Vico, l'Albornoz liquidò alle spicce Cola di Rienzo ("lo fece senatore e mannaolo via" scrisse l'anonimo nel 1354) e rivolse tutte le sue energie dapprima a debellare la lega dei tiranni capeggiati dai Visconti, dai Malatesta e dagli Odelaffi, e quindi, nel 1355, a riconquistare la Marca Anconitana.

Dopo aver riportato sotto controllo quasi tutto il territorio, nel 1357, a Fano, dinanzi a una assembla di signorotti, di vescovi e di podestà di tutti i paesi dello stato della chiesa, emanò e fece approvare un ordinamento giuridico, le "Constitutiones Aegidianae" appunto, con cui, pur rispettandone l'autonomia, regolava sul piano amministrativo, legislativo e penale la vita nelle province riconquistate e delle singole comunità, riallacciando anzitutto i rapporti degli enti locali con il potere centrale, quasi del tutto disfatti du-xmte la permanenza del papa ad Avignone, e provvedendo poi a presidiare lo stato, qua e là, nei luoghi più strategici (Assisi, Spoleto, Viterbo, Ancona, Terni, Narni, Orte) con opere di fortificazione, con torri e rocche massicce e maestose, con la più grande varietà, senza un disegno precostituito, adattate al terreno, alla configurazione topografica e alla capacità ai resistenza naturale. Così, in poco meno di tre anni, riuscì a ricostruire l'intelaiatura dello stato, con un territorio diviso in province, a capo delle quali pose un rettore, coadiuvato da un tesoriere (camerario) da un maresciallo (miles) e da quattro giudici, tutti di nomina papale, e con un parlamento formato da nobili, da vescovi e da rappresentanti dei comuni, con il compito di approvare le leggi di carattere generale e, dì ripartire le, imposte fra le diverse comunità.

Ma dopo il ritorno del papa a Roma, nel periodo sciagurato dello scisma d'occidente, le, rivalità dei vari signorotti e i conseguenti disordini, per un pò di tempo sedati, si riaccesero con rinnovato vigore. Collegandosi fra di loro, senza alcun riguardo per il potere centrale, ridotto peraltro a pura parvenza, dilaniato com'era dagli scismi e dalle discussioni teologiche, i signorotti si ritenevano liberi da qualsiasi obbligo e si comportavano non comevasswalli della chiesa, ma come padroni assoluti. "Pro bono pacis" e in attesa di tempi migliori, la curia romana dovette piegarsi ad alcune concessioni che le permettevano di assicurare, per certi aspetti, l'unità dello stato e di contenere in qualche modo le cose, in attesa di poterle controllare e modificare: il papa concedeva al signorotto il titolo di suo Vicario Apostolico, lo costituiva leggittimo rappresentante presso le popolazioni del feudo di cui si era impadronito e gli riconosceva, tra gli altri privilegi, il diritto di trasmetterlo in eredità ai discendenti: il signorotto, a sua volta, pagando un censo annuale, faceva atto di sottomissione alla sovranità pontificia e riconosceva così l'unità dello stato.

Con queste accortezze, più che con la forza, Martino V era riuscito a imbrigliare Braccio di Montone e a far riconoscere alle città del Patrimonio l'autorità dello stato. In questa linea, i suoi successori non mancarono di far sentire suoi feudatari dei vari centri, spesso riottosi e non sempre disciplinati, il loro "altum et supremum dominium", intervenendo energicamente per eliminare, per quanto possibile, soprusi e prepotenze.

Entro questo ambito giuridico, a partire dal sec. XIII fino al sec. XVI, accrebbero nelle nostre zone il loro patrimonio e la loro influenza, su posizioni politicamente contrapposte, le famiglie Colonna e Orsini, di parte ghibellina l'una e guelfa l'altra. Della famiglia Colonna, cardinali come Giacomo nel sec., VIII, e poi senatori come Sciarra (che nel 1303 con Guglielmo di Nogaret osò schiaffeggiare ad Anagni Bonifacio VIII), e i due fratelli Giovanni e Giacomo, amici del Petrarca nel sec. XIV segnarono sempre, nel bene e nel male, le vicende più importanti nel loro tempo. La potenza della casata raggiunse il massimo splendore e, forse, il massimo della prepotenza, nel 1417, quando un suo membro, il cardinale Oddone, fu eletto papa con il nome di Martino V.

Questi seppe provvedere con grande accortezza a ridare alla chiesa, squassata dallo scisma, un rinnovato prestigio, e a Roma, abbandonata da quasi cento anni, un nuovo volto, ma sul piano militare, non sapendo a chi appoggiarsi con sicurezza, non trovò di meglio che servirsi dei suoi nipoti, i quali, però, nel governo delle varie fortezze, fiancheggiati sul posto dalle famiglie più influenti, si comportavano non con la dignità che si conveniva ai nipoti del papa, ma con l'arroganza dei tiranni che la facevano da padroni, suscitando ovunque risentimenti e reazioni esasperate.

Alla morte del papa (1431) ovunque ci furono insurrezioni e ovunque furono scacciati con i loro fiancheggiatori. A Orte, perchè fenomeni come questi non si verificassero più, i cittadini non esitarono a "scaricare" la rocca, che l'Albornoz aveva fatto ricostruire nel 1366. In diverse città del Patrimonio, ebbe così inizio il triste fenomeno dei fuoriusciti che, collegati con le famiglie rimaste all'interno delle comunità, crearono molto spesso, insieme con le bande assoldate da altre comunità, motivi di tensione e di disordine, con incursioni improvvise e rapine di bestiame.

Alla famiglia Colonna si contrapponeva, schierata su posizioni guelfe, la famiglia Orsini, resa illustre, nel sec. XII e XIII da due papi e numerosi cardinali. Saldamente radicata nel territorio dello stato pontificio con numerosi castelli (Bassanello, che era tra i più antichi, risaliva nel suo nucleo primitivo al 1278) ebbe modo di manifestare la sua potenza nel 1390 quando, nel quadro di un disegno politico volto a bilanciare i due contrapposti partiti, Urbano VI (1378 - 1389) nominò il cardinale Tommaso delegato per il Patrimonio di San Pietro in Tuscia.

Da allora nelle nostre zone i contrasti permanenti con i Colonna si accentuarono sempre più, e si fecero estremamente tesi quando gli Orsini divennero gli esecutori della politica di Eugenio IV e dei papi successivi.

I signorotti delle varie città e anche i comuni autonomi furono costretti a prender posizione per l'una o per l'altra parte ma, a prescindere dalla posizione originaria, ognuna delle due famiglie, a tutela degli interessi del momento, non esitava a coprire con la propria autorità le ruberie e le rapine operate dagli sgherri a loro servizio.

Emblematico, a questo riguardo, il comportamento di donna Elena Orsini, "signora" di Bassanello. Rimasta vedova di Gentile Meliorati, costei aveva sposato in seconde nozze Nicolò Orsini e da questi le era stato affidato il castello di Bassanello con il titolo di "signora". Nel 1452, nell'anno stesso in cui ai due suoi figli Cosimo e Ludovico, Nicolò V aveva concesso il titolo di feudatari di Bassanello, Palazzolo e Cerqueto, alcuni suoi "vassalli" avevano rubato alcune bestie che pascolavano nel territorio di Orte (cfr. Riformanze del Comune di Orte f. 132).

Nel consiglio generale appositamente convocato il 20 agosto, su proposta di Giovanni di Battista, gli ortani cercarono di risolvere il caso per via diplomatica: fu riaffermato anzitutto il diritto di difendere i confini territoriali, e questo dovere non poteva essere considerato ingiuria per nessuno; fu, quindi, proposto un piano di pace articolato su tre ipotesi: per evitare "ogni scandalo", il cardinale Latino Orsini, camerlengo, cioè tesoriere della chiesa, e quindi persona assai autorevole nel governo dello stato, e i suoi fratelli, da una parte, e il comune di Orte, dall'altra, avrebbero scritto una lettera a donna Elena, per invitarla a restituire il bestiame; se "la signora" si fosse rifiutata, due ambasciatori del comune sarebbero stati inviati al card. Latino perchè intervenisse con il peso della sua autorità; se anche questi si fosse rifiutato, allora il comune avrebbe fatto ricorso al papa. Il piano, però, si bloccò alla prima fase: la "signora Elena" fece sapere che lei non avrebbe restituito un bel nulla. Per salvare la faccia ("per un minimo di pudore") e per i danni che da questa risposta derivavano al comune, il consiglio generale propose di rimettere la questione a una apposita commissione e di inviare comunque due ambasciatori a Bassanello. Solo se "la signora" si fosse di nuovo ricusata di accettare la richiesta di restituzione, allora i due ambasciatori sarebbero stati inviati immediatamente al papa.

Le riformanze non ci dicono come sia stata risolta la questione. Una cosa, però, è certa, che donna Elena non si spostò di un dito dalla sua posizione, anzi qualche anno più tardi, per un caso di maggior gravità, si mostrò ancor più dura e prepotente.

Il 16 giugno 1457 alcuni suoi "famigli" ("per famulos de Vassanello") avevano sequestrato un certo signor Michelangelo da Spoleto, alloggiato nell'albergo ("in hospitio") di Toto di Chiasso, nei pressi del Rifugio, appena fuori di Orte. Il consiglio indignato per un delitto così odioso, che offendeva la dignità e la credibilità della città nei confronti di altre comunità, ordinò di arrestare immediatamente e di processare Toto e il suo servo, con l'accusa di favoreggiamento; stabilì poi che se quel cittadino di Spoleto avesse voluto riscattarsi, poteva liberamente farlo a spese del comune; impose una taglia su qualsiasi abitante di Bassanello che venisse trovato entro i confini del territorio e, infine, decise di inviare un'ambasciata a donna Elena per trattare la restituzione del sequestrato: in caso di rifiuto avrebbe rimesso la questione al governatore. Anche questa volta tutto fu inutile: donna Elena continuò imperterrita nella sua strada, guardando solo al "suo particulare"; non solo, ma proprio in quei giorni non esitò ad avallare un furto di grano da parte dei Bassanellesi ai danni di Angiolello Vici (25 luglio), e qualche mese dopo (19 febbraio 1458) il furto, nei pressi della fonte del pino (Refugio) del cavallo di Antonello da Forlì, armigero al servizio di Everso dell'Anguillara, il quale fece sapere che se gli ortani non l'avessero subito restituito, avrebbero dovuto pagarne quattro volte il prezzo.

Ci siamo di proposito soffermati su questi episodi perchè ci fanno capire con quanta spregiudicatezza e con quanta arroganza un membro della famiglia Orsini si comportasse nei confronti di un libero comune. Non abbiamo documenti che ci dicano come donna Elena o il suo vicario si comportassero con i propri sudditi, ma, alla luce di questi e altri fatti, crediamo di poter fondatamente ritenere che, forte degli appoggi familiari alla corte papale, i criteri non dovevano essere poi tanto differenti.

Le cose cambiarono radicalmente con Alessandro VI, una cui nipote, Adriana Mila, aveva sposato Ludovico Orsini, il quale nel 1494 aveva assegnato al figlio Orsino il possesso, con dominio perpetuo, di Bassanello, Vignanello e Carbognano. Fu proprio il comportamento di messer Ludovico che convinse il papa della necessità di ridimensionare sia gli Orsini che i Colonna, divenuti troppo potenti e in grado di intralciare i suoi piani. Ne derivò una fase politica piuttosto intricata, i problemi di politica estera (calata di Carlo VIII) si intrecciavano con la necessità di rimettere ordine nello stato della chiesa, ridotto a un assieme di città che si atteggiavano a piccolo stato, ognuna desiderosa di sottrarsi al potere centrale per realizzare i propri fini. Il papa fece assediare prima il castello di Bracciano, poi fece imprigionare a Napoli Giordano e Paolo i due figli di Virginio Orsini, quindi si rivolse contro i colonnesi.

Quando apparve chiaro l'obbiettivo che Alessandro VI si proponeva, conquistare l'Italia centrale per costruire uno stato da assegnare al figlio Cesare, gli Orsini si schierarono apertamente contro di lui. Le conseguenze furono tremende: furono arrestati e chiusi a Castel Sant'Angelo, dove morirono pochi giorni dopo, il card. Battista e il vescovo Rinaldo; Paolo e Francesco, che avevano partecipato alla congiura della Maggione, furono strozzati con raffinata crudeltà il 18 gennaio 1503, insieme con Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo e Paolo Baglioni, dallo stesso Cesare Borgia che li aveva astutamente invitati a pranzo a Senigaglia, con la scusa di arrivare a un accordo.

La famiglia Orsini si trovò improvvisamente decapitata dei suoi esponenti più autorevoli, ma riconquistò presto un ruolo di primo piano quando, scomparso all'improvviso Alessandro VI (18 aprile 1503), nel 1505 si legò strettamente con la famiglia della Rovere attraverso il matrimonio di Laura figlia di Orsino, con Nicola della Rovere, nipote di Giulio II.

Intanto anche i tempi erano cambiati e si era aperto un nuovo quadro politico. Gli egoismi cittadini che animavano i piccoli stati italiani, in lotta fra di loro, avevano suscitato le ambizioni delle grandi monarchie straniere, per le quali l'Italia era diventata il centro di una lotta per l'egemonia su un piano sempre più europeo.

Le piccole città, così come i piccoli feudi sentirono il bisogno di rompere l'isolamento in cui fino allora si erano chiusi, e superando le antiche rivalità, riconsiderarono i rapporti civili con spirito nuovo, non più basato sulla tirannide all'interno e sulla prepotenza nei confronti delle comunità vicine, ma su norme concordamente fissate e unanimemente riconosciute.

Anche il governo del papa mirava alla formazione di uno stato capace di indurre i signorotti e i potenti locali a muoversi non più mirando esclusivamente alle proprie ambizioni e ai propri interessi, ma tenendo conto anche delle esigenze della popolazione e degli interessi della comunità. Fu, appunto, in questo nuovo clima di apertura e di maggiore attenzione che anche nelle piccole comunità feudali, soggette fino allora a un signore assoluto, si sentì il bisogno di fissare con norme scritte i diritti e i doveri dell'una e dell'altra parte.

All'inizio dell'età moderna, nel territorio del Patrimonio di San Pietro in Tuscia, di cui facevano parte anche Bassanello e Orte, i comuni si distinguevano in due gruppi: quelli autonomi, retti sulla base di uno statuto da un consiglio di cittadini eletto a sorte da un bussolo, approvato dal governo centrale, e da un potestà nominato dal papa ; e quelli governati da un signorotto locale, sottratto ad ogni intervento del governo centrale, purchè però, i suoi atti non contrastassero con le leggi generali e con le norme del diritto canonico.

L'apparire degli statuti, pur se in epoca relativamente tarda, anche in queste comunità, sta ad indicare che il sistema di un potere assoluto e arbitrario, che aveva permesso fino allora al signore di fare il bello e il cattivo tempo, si era ormai incrinato, non solo per effetto di una maggiore maturazione della coscienza civile nella parte più attiva e intraprendente della popolazione, ma anche per la terribile esperienza vissuta in presenza degli eserciti stranieri, particolarmente durante la calata dei Lanzichenecchi per il sacco di Roma (1527).

Il Leoncini (ib. vol. III pag. 53) ci riporta in proposito una preziosa notizia. Laura Orsini, che con il marito Nicola aveva preso possesso del feudo di Bassanello, verso la fine del secondo decennio del '500, quando scesero i Lanzichenecchi, preoccupata per la sicurezza della sua popolazione, scrisse una lettera alla comunità di Orte, per chiedere "che voglia ricettare le donne di Bassanello et homini con le loro facoltà, respetto la venuta del Borbone".

Il consiglio comunale "li ricettò" volentieri "assieme con gli altri convicini così Bassano, Penna et altri lochi". Fu così che per un pò di tempo gli abitanti di Bassanello convissero con gli ortani e molti pregiudizi dovettero cadere e le antiche rivalità e gli antichi dispetti non si ripeteranno più.

A seguito di quella esperienza, dolorosa ma anche, per certi aspetti positiva, noi crediamo che dovette maturare nell'animo del popolo e in quello dei signori che lo governavano la convinzione che era bene stabilire un rapporto nuovo e diverso tra le parti, basato non più sull'arbitrio e la prepotenza, ma su un principio di fiducia, di incontro e di giustizia. Non è senza un significato che la premessa che apre gli statuti di Bassanello riafferma con chiarezza il fine che si voleva raggiungere: ("l'augumento della comunità et huomini deputati per consiglio pubblico, fu dato libero arbitrio et autorità da fare capitoli et de ordinare statuti secondo ad loro parerà, per lo honesto vivere et pace della terra di Bassanello".

Non sappiamo quanto tempo "gli huomini deputati" abbiano impiegato nella stesura delle norme fissate. Ma se teniamo conto che il decreto con cui Laura Orsini e Nicola della Rovere dispongono che i Vicari "allo officio de Bassanello" abbiano come salario venti carlini al mese, più le competenze a loro dovute per le cause penali e civili, reca la data del 17 novembre 1533, possiamo ritenere con quasi assoluta certezza che, a quella data gli statuti erano ormai completi in tutte le loro parti e la comunità di Bassanello poteva ormai iniziare un nuovo cammino, più umano e più giusto, nella vita di ogni giorno.

Don Delfo Gioacchini

bd21305_.jpg (1695 byte)

bd21305_.jpg (1695 byte)

MENU' PRINCIPALE

| Perchè Questo Libro ? | La Deputazione Classe 1956 | Prefazione | Introduzione |

|
LIBRO PRIMO PARTE PRIMA - Il Magistrato |

LIBRO PRIMO PARTE SECONDA - Codice Civile | LIBRO TERZO - Delli Malefitii | LIBRO QUARTO - Dei Danni Dati |

| LIBRO QUINTO - Delli Straordinari | LE AGGIUNTE E GLI ALLEGATI - Le Aggiunte e gli Allegati |

|
Gli Accordi con i Paesi Confinanti sui "Danni Dati" | Il Castello di Palazzolo |

|
l'Ordinanza di Francesco Colonna, Principe di Palestrina, Conte di Carbognano e Signore di Bassanello |

| San Lanno Protettore di Bassanello | APPENDICE I - La Ceramica Vasanellese nel Novecento di Giampiero Mecocci | Piccolo Dizionario |

| APPENDICE II - Statuto della Deputazione Festeggiamenti San Lanno | Dignità Magistrali | Monete | Ringraziamenti |

| Pagina Iniziale del Libro |

bd21305_.jpg (1695 byte)

bd21305_.jpg (1695 byte)

Copyright © dall'Anno 2000 dei Rispettivi Autori e del Webmaster: Andrea Di Palermo
Tutti i Diritti Riservati - Info Line: 348.8011177
E-Mail: webmaster@vasanellovt.it - Contact Facebook: Andrea Di Palermo

bd21305_.jpg (1695 byte)